MIO NONNO: FRA GRANITE, CAFFELLATTE E CAFFE’

Di Giuseppe Patanè

 

Dormiva lontano dal letto nuziale ormai da molti anni. La moglie l’aveva punito per la sua avventurosa vita. Lo aveva piazzato in un lettino singolo ai margini della stanza da letto e lei aveva condiviso il letto matrimoniale con le figlie femmine fin dal primissimo dopo guerra, quando lui era tornato dai confini più lontani.

Fin dagli inizi del secolo, il nonno aveva percorso in lungo e largo l’Europa fino a trovarsi spesso nei luoghi dove si faceva la storia. Non disdegnava non dare sue notizie per interi anni. Nelle condizioni di arcaico separato in casa il nonno trascorreva la maggior parte del suo tempo nel suo laboratorio di falegnameria a pochi passi da casa dove, in ogni caso, la nonna poteva controllare il fastidioso ed isolato, colpevole e vizioso trasgressore affinché non reiterasse comportamenti sconvenienti.

Il mio nonno era un ebanista impellicciatore, un artigiano-artista che i clienti apprezzavano in modo particolare. Ancora oggi a casa delle zie, rimaste “zitelle”, si può ammirare qualche pezzo fatto da nonno. Il suo laboratorio era, per un bimbo di cinque o sei anni, come ero io allora, un mondo da scoprire ogni giorno.

Si entrava attraverso un portone “gigantissimissimo” dopo aver aperto le serrature a doppia mandata che egli stesso aveva costruito. Si scendevano due alti scalini e ci si trovava in uno stanzone immenso dove, da un lato, in bell’ordine erano sistemati gli attrezzi, mantenuti puliti ed efficienti; intoccabili per un bimbo, avevano le forme più strane e curiose.

A volte un cavallo, altre volte un elefante, nella mia fantasia da bambino quegli attrezzi, con le loro forme strane, si trasformavano in animali che vivevano in foreste fatate, altre volte in soldatini che combattevano le mie immaginarie battaglie. Il legno che era in laboratorio, anch’esso disposto in bell’ordine, con le sue forme strane che solo una fervida immaginazione avrebbe potuto fare rivivere e con i colori più belli che io possa mai ricordare, rappresentavano nella fantasia di quel bambino i boschi dove vivevano gli attrezzi-animali o i campi di battaglia dove combattevano immaginari soldatini.

Quel laboratorio, con le sue ombre, i suoi anfratti e angoli nascosti, era per me fonte di viaggi nell’immaginario, salti nel tempo e nello spazio e conseguenti lotte e battaglie che si concludevano sempre e immancabilmente con un’avventura a lieto fine nella quale, inevitabilmente e vittoriosamente, sconfiggevo i cattivi.

A volte, quando la mia anima ne sente il bisogno, cerco nei miei ricordi quel bimbo spensierato, felice e vincitore, ma non sempre lo ritrovo.

In laboratorio si andava sempre, d’inverno, dopo una calda tazza di caffellatte e, d’estate, dopo una buonissima granita di mandorle e panna per me e di caffè con panna per nonno, sapori ed odori che ancora oggi ricordo e cerco quando ho voglia o bisogno di “nascondermi” in posti sicuri.

Quando seguivo nonno in laboratorio e mi sedevo nella sediolina che lui aveva costruito per me, lo guardavo lavorare con i suoi gesti calmi, sicuri e misurati che mi ipnotizzavano e nei silenziosi e continui dialoghi che lui aveva con il legno e con me, io coglievo le straordinarie capacità di un vecchio e di un bimbo di entrare in sintonia senza parlare, solo lanciandosi messaggi e pensieri che ancora oggi fanno parte di me.

Quei silenzi che ancora cerco e pratico quando resto a guardare qualcuno, a cui voglio bene, cercando nei gesti di quella persona il significato più profondo proprio come facevo tanti anni or sono con mio nonno: dialoghi senza parole che inutilmente si sarebbero persi e anche oggi si perderebbero nell’aria.

Da quei pensieri, da quei silenzi e da quelle immaginifiche avventure mi destavo spesso all’improvviso e mi rendevo conto che il lavoro di nonno aveva assunto forme e colori che all’inizio della mattina dovevano essere ancora partoriti e che adesso erano lì a rappresentare, a volte scene di caccia, altre volte battaglie campali o balli fra contadini e, qualche rara volta, balli fra nobili.

In verità non sempre erano cosi chiari i parti delle abilità di nonno, non sempre la scena di caccia era chiara, non sempre la battaglia o il ballo si scorgevano immediatamente perché incomplete. Io credo che i silenzi che imbastivano le giornate al laboratorio mi davano allora e mi danno ancora oggi, forse, la capacità di cogliere, fra le ombre, il significato delle cose, di cogliere nei silenzi il significato delle cose non dette così come succedeva allora con nonno.

La magnificenza dirompente, esplosiva, iperbolica dei suoi lavori la colsi anni dopo, quando ormai adolescente frequentavo meno il suo laboratorio e mi capitava di non andarci per giorni, a volte per intere settimane e quando entravo in quello che per me era stato un campo di battaglia, fra attrezzi-soldato e altre fantasie partorite dalla mente di un bimbo.

Trovavo le scene di caccia o balli fra contadini complete, complete con i colori che nonno nei suoi silenzi, ormai solitari, aveva scelto per rappresentare. La sua fantasia, le scene rappresentate, assumevano allora tutta la loro festosità trascinante. Ricordo ancora la passione che metteva nell’intagliare il legno, la sua minuziosa attenzione nell’incollare perfettamente pezzi diversi del suo lavoro.

Ricordo ancora i nostri intimi silenzi che tanto mi hanno insegnato. Ricordo le granite e i caffelatte. Ricordo ancora quel bambino, lo cerco a volte, ma non sempre lo trovo.

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