PALMA DI MONTECHIARO – “LODATO SII MIO SIGNORE…!” E LA STORIA RINASCE A NUOVA VITA

Di Beppe Miceli

 

E’ L’ALBA

E’ l’alba…..
Le prime luci del giorno cominciano ad illuminare riflessi sullo specchio del mare, filtrando attraverso le robuste impalcature a raggiera della palma nana.

10 luglio 1943. Il giorno avanza ormai implacabile in quella sperduta landa costiera della Sicilia sud occidentale. A pochi chilometri di distanza i greci avevano edificato la loro voglia di spiritualità abbandonata ormai da secoli sotto la disperazione di colonne abbattute in una terra senza sorriso.
Avevano maturato qualche sospetto quel pugno di soldati mandati a diifendere un tratto della costa agrigentina. Si parlottava tra una galletta ed una brodaglia che… forse sarebbero sbarcati. Ma sì, gli alleati. Stavano arrivando si diceva. Forse già a Pantelleria.
La luce del giorno senza pietà aveva già preso possesso del teatro dove si sarebbe verificato uno degli eventi più straordinari del mediterraneo.
L’ultima onda visibile all’orizzonte annunciò che qualcosa stava cambiando nel vento.
Il soldato posto nel suo piccolo bunker di due metri quadrati pensava già a come avrebbe potuto superare una nuova giornata di terribile lotta contro il sole che si sarebbe accanito sulle mura della sua piccola protezione in cemento. Il piccolo cannoncino che sporgeva dalla fessura lo faceva sentire tranquillo. Padrone della situazione.
Uscì tra le dune per salutare la nuova giornata col rito del primo mattino che lo avrebbe visto accucciato tra le alte erbe costiere con i calzoni abbassati intento nelle sue necessità corporali. Era lì il soldato, con il capo reclinato sulla sabbia a seguire attento le strane orme che lasciava dietro di sè una scura Pimelia sulla rena ancora umida. Pensava a dove si sarebbe potuto nascondere quel piccolo coleottero nero per sfuggire alle terribili ore di sole che stavano per accamparsi sulla costa. Lo sguardo si alzò lentamente all’orizzonte, quasi ascoltando un grido di gabbiani improvviso. Ma non c’era alcun volo. Solo l’onda.
L’onda che laggiù era diventata strana all’orizzonte. Era un po’ più marcata. Forse il vento stava montando. Leggermente più pronunciata del solito. Forse anche un po’ più scura del solito. Si affrettò a sollevarsi i calzoni per correre a prendere il suo binocolo nel piccolo bunker.
Il suo corpo si arrestò sospendendosi in una sorta di inebetimento che gli faceva trattenere il respiro e salire gradualmente il battito cardiaco.
Non poteva credere a quello che vedeva. L’onda anomala che lo aveva incuriosito era una interminabile fila di navi che all’orizzonte avanzavano verso la costa. Un’onda di tremila navi da sbarco di varie dimensioni e armamenti che come un rullo compressore stava maledettamente avvicinandosi alla spiaggia.
Realizzò che aveva ancora pochi secondi per darsi alla fuga. E con lui un’altra dozzina di compagni sparirono scappando in silenzio tra le dune. Nel giro di pochi istanti quel giovane ufficiale di complemento che poco più in là non era stato ancora avvisato, si accorge di essere rimasto solo con altri due soldati fedeli. Un tenente giovane giovane, fresco di laurea. Aveva studiato lettere. Appassionato delle lettere antiche. Era felice di essere stato inviato in quei posti dove i greci avevano lasciato profonde tracce della loro presenza. Era fidanzato. Si sarebbe sposato non appena fosse terminata la guerra, di lì a breve come si vociferava. Ma non sapeva che c’era ancora quel giorno maledetto da scavalcare. Un giorno che si ergeva alto come un muro insormontabile. Sempre più alto.
Passarono i minuti ed iniziarono i cannoneggiamenti dal mare. L’onda all’orizzonte divenne di colpo rossastra di bagliori in mezzo ai quali cominciarono ad emergere le prime sagome scure delle navi più grandi. Il mare nel frattempo si era talmente addensato di mezzi da sbarco che l’orizzonte era praticamente diventato un’unica linea nera di navi.
Decisero di ritirarsi per rifugiarsi nel paese retrostante. Palma di Montechiaro.
Avvenne lo sbarco. Un fiume di mezzi interminabile, con migliaia di camionette, autoblindo, carri armati, camion, cannoni autotrasportati, mezzi cingolati di varia natura stava concentrandosi sulle spaziose spiagge di quel litorale. Il mare ormai brulicava di oltre tremila navi alla fonda su un tratto estesissimo di mare. Il più imponente schieramento navale mai visto nel mediterraneo dalla notte dei tempi. Una macchina bellica mostruosamente organizzata pronta a porre fine allo strapotere nazista.

Quel giovane tenente che non aveva voluto gettare la sua divisa per vestire abiti civili e confondersi con la popolazione sarebbe stato catturato nel paese di Palma di Montechiaro insieme a centinaia di altri soldati.
Lo attendevano i campi di concentramento del Marocco, in una zona vicino Casablanca. Lì avrebbe trascorso tre lunghi anni di prigionia nelle baracche d’un campo americano.
Lì avrebbe chiesto invano, tutte le sante mattine quando sarebbero stati liberati per sentirsi rispondere giorno dopo giorno sempre la solita cosa: tomorrow.

Mesi passati in un clima tremendo, dove le escursioni termiche proiettavano le temperature a pochissimi gradi sopra lo zero di notte e calori insopportabili di giorno.
Mesi in cui scrisse un vocabolario di greco, uno di latino ed una grammatica greca e latina. Aveva terrore di dimenticare tutto. Mesi in cui compose un bellissimo diario di prigionia fatto esclusivamente di immagini: foto ritagliate dalle riviste che gli yankees leggevano e gettavano nei rifiuti.
Era mio padre questo giovane tenente e conservo ancora quei suoi libri ed il suo diario.

Foligno (PG) Primo Novembre 1960. Ricorrenza dei morti.

Non avevamo morti da andare a visitare. I nostri cari erano tutti sepolti in Sicilia, fra Trapani e Palermo. Mio padre aveva saputo che alle falde del Monte Subasio, pochi chilometri sotto Assisi, esisteva un piccolo cimitero di guerra Americano. Era situato tra Santa Maria degli Angeli e Spello in una località di nome Rivotorto. Avevamo acquistato da pochissimo una Fiat 600 bianca, il primo tipo, quella con gli sportelli che si aprivano a vento. Fu l’occasione per andare a dire una preghiera in questo cimitero. Percorremmo per la prima volta la vecchia strada provinciale che si stende lungo pianura umbra, scivolando tra filari di querce. Bellissimi oliveti ci rincorrevano sulla destra costeggiando le falde del monte.
Un grande cancello di particolare pregiata fattura ci lasciò intendere che il nostro viaggio fosse terminato. Il piccolo cimitero era là, addormentato su un ritaglio della campagna assisana. Un centinaio di candidissime lapidi disposte sull’attenti a mento alto, petto in fuori, allineate su di un prato tagliato raso. Raso come la testa di un marine. Non un fiore. Niente di niente se non marmo ed erba perfettamente selezionata e curata. Alle spalle un’ enorme bandiera americana a mezz’asta. Di fianco una piccolissima cappelletta con un diario dove offrire il conforto di una frase per quei caduti.
Uno di quei luoghi dove la comunione con uno dei misteri più strabilianti della nostra vita… diventa essenziale ed esclusivo. Dove le lacrime ti strabordano dalle palpebre senza che tu nemmeno possa avere il tempo di accorgertene.

Quei marines rimasti sull’attenti per così tanti anni ora erano lì a renderci gli onori per una nostra preghiera di compassione e di ringraziamento. Erano ancora lì per noi come lo erano stati tanti anni addietro. Già, per noi.
Mio padre piangeva insieme a me ma non disse mai una parola più del necessario. Era il suo cuore che mi parlava e che mi prendeva per mano e mi conduceva per la prima volta in uno di quei percorsi straordinari di sottile spiritualità di cui ancora non avevo mai assaporato l’essenza.

Per molti anni ancora accadde questo ripetersi di visite al cimitero americano, anche estemporaneamente. Era sufficiente passare lì davanti…che una fermata fosse d’obbligo.
Mi sono chiesto per tantissimi anni il perchè di questo comportamento da parte di mio padre e sinceramente fino a questa mattina non avevo compreso il profondo ed unico significato.
Ho capito come la morte per questi soldati fosse potuta apparire non come un nemico da combattere ma come una compagna di viaggio. Un’ amica da stringere per mano e con cui proceder insieme lungo il cammino di quei lunghi mesi di guerra. Una morte vissuta con l’animo di colui il quale tutte le sere la ringrazia per averlo risparmiato. Una morte che è felice di portare il più avanti possibile l’esistenza di un soldato. Una morte che percorre su una strada parallela il suo stesso cammino. Una morte pronta a ghermire si, ma a proteggere e conservare in vita fino all’ultimo respiro possibile quel soldato che annegherà nel suo stesso sangue.
Quei soldati come tutti i soldati del mondo hanno un senso della vita e della morte diverso da chi rimane a casa accanto al proprio focolare. Una percezione vera, profonda collegata alla dignità del passaggio di un corpo martoriato che soffre fra la solidarietà dei compagni che lo assistono fino all’ultimo respiro. Il passaggio dalla sofferenza immane ad uno stato di totale trasformazione delle proprie sembianze fisiche e spirituali in qualcosa di impercettibile ma ricca di dignitosa essenza.

Era quella morte amica che lui voleva farmi conoscere. Non quella raccontata da un cimitero qualsiasi dove lasciare un fiore su una tomba a caso. Ma quella che può anche rincuorarti lasciandoti intendere che puoi diventarne complice ed amante segreto nel profondo dell’anima. Una morte che non ti lascia attendere su un lettino di corsia, senza lacrime di nessuno, senza occhi chiusi, senza un velo steso sul viso.
Che non ti fa assistere al cinismo di una miserrima lotta per una sepoltura su questo o quel cimitero, respinto come carogna da eliminare alla svelta.

Dicembre 2006. Rivotorto d’Assisi
– trent’anni dopo

Un viaggio inatteso ed improbabile ma affacciatosi con violenza tra le mie priorità. Ero proprio in zona ……….

La provinciale era rimasta sempre la stessa. Il cancello sempre perfettamente verniciato di grigio. Il prato raso fresco di barbiere.
Loro sempre lì sull’attenti a petto in fuori. Una preghiera. Uno sguardo verso la città del Santo proprio lì alle spalle.

Lassù, tra gli oliveti, Francesco continua a passeggiare cantando:
“Lodato sii, mio Signore, per nostra corporal sorella morte!”.

 *Foto dal Web

Beppe Miceli

Di radici siciliane, terra verso cui conserva uno stretto ed esclusivo legame, ha trascorso la prima parte della sua vita in Umbria per spostarsi nel 1974 a Firenze. Fra le pieghe della sua fronte la passionalità araba, il mistico sentire francescano, l’erotico fluire etrusco. Tre matrici regionali divergenti che spesso modellano in maniera imprevedibile il suo accogliere e manifestarsi. Percezioni di zingaro che non cerca l'identità di profili marcati ma l’emozione sfumata di sagome in ombra. E si accontenta di sbirciare fra gli strappi della tela che avvolge e cuce natura con poesia. Cacciatore, pescatore subacqueo ed entomologo collezionista pentito, ha rivoltato come un calzino la sua esistenza diventando vegetariano, contrario alla vivisezione, alla caccia, allo sfruttamento animale di qualsiasi tipo e profondamente antispecista. Rifiuta quindi l'antropocentrismo. Si interessa di foto naturalistica, entomologia, ecologia, etologia, macrofotografia, tutela dell'ambiente, spiritualità. Adora il trekking e nel suo rapporto con la natura è quasi sempre un solitario.

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