CACCIA – STORIA DI UN EX CACCIATORE – SPUNTI DI RIFLESSIONE SU SCELTE DI VITA CHE CAMBIANO

Di Beppe Miceli

Questa è la mia storia di ex cacciatore. Spero che condividerla possa servire come spunto di riflessione e di rinnovamento esistenziale.  Credo che non sia disonorevole rinnegare una scelta di vita già consolidata e rispettata per anni secondo le regole della tradizione.

Non è un tradimento rinunciare ad essere cacciatore per appendere i fucili al chiodo. E’ una scelta che fa seguito ad una maturazione, quindi ad un cambiamento radicale. Per chi fosse appassionato così come lo ero io, oltre a rappresentare una grande rinuncia, penso che si tratti più che altro di una mossa coraggiosa riuscire a rifiutare una scelta così determinata come quella di praticare la caccia.

Quando sei cacciatore fai di tutto per convincerti che sei un amante della natura, apprezzandone i ritmi, le cadenze stagionali, i suoni, i colori, i profumi, le forme, le armonie. In realtà non è affatto così. Sei un boia. In effetti, una volta presa coscienza della propria vera identità di soppressore di vite, si deve ribaltare quel percorso esistenziale che per una fetta importante della vita ha condizionato il nostro stile comportamentale verso la prevaricazione, la violenza, il culto dell’uccisione per impossessarsi del corpo e dell’anima dei selvatici. E non è affatto facile compiere questo gesto di rinuncia che in realtà si traduce in un vero gesto d’amore. Ma… si può fare.  

Essere cacciatori in certi luoghi d’Italia, dove la tradizione venatoria si perde nella notte dei tempi  (provate a pensare alla provincia di Brescia dove risiedono i principali produttori di armi con una grandissima densità di cacciatori) rappresenta condizione essenziale per ottenere il giusto credito sociale, stima, rispetto, cerchia di amicizie, inserimento nel mondo del lavoro. Gli amici, i parenti, i familiari, l’ambiente sociale in cui siamo inseriti esercitano delle pressioni sottili, subdole, striscianti, ma pur sempre fortissime che quasi ci obbligano ad atteggiarci in certa maniera anziché in un’altra. Accettare quindi il condizionamento rappresenta il confine fra l’essere escluso ed il partecipare: la frontiera fra il condividere e la solitudine.  Spesso certe scelte sono quindi obbligate, particolarmente in quelle piccole realtà sociali dove sei esposto al giudizio di tutti e dove il comportamento deviante salta troppo evidente all’occhio ed offende il patrimonio culturale di tutti. Ecco perché sarà estremamente difficile sradicare certe consuetudini consolidate perché far marcia indietro o rifiutare in partenza una tradizione, rappresenterebbe un comportamento deviante e quindi riprovevole.

Era il 1960 quando mio padre mi portò per la prima a volta a caccia: avevo 10 anni e dei calzoni di fustagno, lunghi. Ero emozionato perchè erano i primi pantaloni lunghi che indossavo nella mia vita di cucciolo d’uomo. Mi sentivo felice di uscire insieme a mio padre che mi portava a caccia con sè, attribuendomi nuove responsabilità e uno status di apprendista cacciatore che mi inseriva a pieno diritto nel mondo di coloro che si avviavano a diventare adulti. Ho appreso quindi, un po’ per volta, a confrontami con la morte della “selvaggina” quasi fosse qualcosa di necessario, oltre che di lecito, visto che quegli animali venivano definiti “selvatici” e non potevano essere considerati “domestici”. La progressione nel coinvolgimento venatorio è stata logaritmica in funzione dell’età dello sviluppo che quasi di colpo trasferì la mia mente e il mio spirito dal corpo di un bambino in quello di un adulto. Avevo finalmente le prerogative fisiche necessarie per imbracciare un’arma e poter prendere piena confidenza con essa. A 16 anni ottenni la licenza e potevo circolare armato in compagnia di mio padre.

Quando si sente parlare di “arte venatoria” si intende un qualcosa che più si pratica e più si perfeziona dal punto di vista tecnico: si apprende la conoscenza delle armi, del munizionamento, dell’efficienza dell’uno in funzione dell’altro, delle tecniche di caccia, delle abitudini della selvaggina, del riconoscimento di essa, del suo spostamento in funzione delle stagioni ecc. ecc. Qualcosa di estremamente complesso e di non facile apprendimento, tanto che arrivare ad essere un esperto cacciatore, pratico in ogni tipo di caccia, è prerogativa di rare persone. Nell’ambiente venatorio quindi si determina una specie di rincorsa al perfezionamento delle proprie conoscenze tecniche, finalizzandole al risultato che si intende ottenere: il primato nelle conoscenze ma soprattutto il carniere. L’unico vero, inconfutabile parametro di misura che differenzia un esperto cacciatore da un novellino. 

E come in tutte le attività, esiste il desiderio di eccellere, di primeggiare: ciò rende alcuni cacciatori senza scrupoli, dei potenziali bracconieri. E’ stato anche questo uno dei primi motivi che mi hanno spinto ad allontanarmi dalla caccia: diventava sempre più nutrito il numero di amici che non rispettavano le regole che delimitavano i giorni, i territori, le specie consentite. Un ambiente che diventava sempre più allo sbando, quello venatorio. Più o meno disonesto come accade attualmente in politica ed in ogni attività commerciale, dove se messo di fronte alle opportunità, le cogli senza troppi scrupoli.

Circa venticinque anni fa, mio padre aveva già smesso di andare a caccia ma io proseguivo, sempre più coinvolto, con i miei amici. Dopo altrettanto tempo vissuto fra fucili, cani, cartucce, polveri da sparo, bilancine di precisione, pallini di piombo, richiami vivi in gabbietta, cominciai a pensare di appendere i miei sei fucili al chiodo. Avevo (ed ho ancora) molti fucili di tipo e calibro diverso. Dalla carabina con cannocchiale di precisione, al piccolo cal.28 pieghevole, passando fra doppietta a cani esterni, automatico, sovrapposto….Un vero patito della caccia, insomma. Ma i tempi nel frattempo erano cambiati: l’ambiente si degradava di giorno in giorno. Gli spazi  naturali si riducevano a causa dell’antropizzazione del territorio. Gli animali di passo calavano di anno in anno. E anch’io maturavo una nuova coscienza che mi impediva di portare ancora in casa quei carnieri di fronte alle mie piccole bimbe sbigottite e nauseate.

Un giorno tornai dalla maremma con un grosso grappolo di uccelli appesi ai laccioli: suonai alla porta e venne ad aprirmi la mia piccola Marina che allora avrà avuto 8/10 annetti (siamo quindi intorno alla metà degli anni 80). Speravo in un suo gesto di ammirazione e di orgoglio nei miei confronti. Scoppiò invece in un pianto. Da quel momento in poi entrai in crisi e cominciai a percorrere il cammino inverso che nel giro di pochi mesi mi portò a chiudere definitivamente con la caccia.

Negli ultimi tempi avevo ripreso ad usare il mio primo fucilino, un piccolissimo cal. 28, monocanna pieghevole ad un solo colpo. Già…”un colpo solo”…: ho praticato a lungo questa filosofia di De Niro nel film “Il Cacciatore” che in quegli anni ancora doveva essere girato.  Il 28 è un calibro talmente piccolo che viene utilizzato nei capanni dove si spara ad animali fermi sui rami a pochi metri di distanza, dove quindi le probabilità di uccidere sono quasi assolute, nonostante la ridotta potenza delle cartucce e la minima quantità di pallini di piombo.Probabilità che si riducono invece al minimo se spari a un animale in volo. Decisi quindi di abbandonare l’uso dell’automatico a 5 colpi di grande calibro per dare la preferenza a lui, quel fucilino ad un colpo solo regalatomi da papà a 11 anni.Cominciai ad usarlo per sparare al volo – cosa impensabile per quel genere di arma –  così da offrire molte chances in più di sopravvivenza alla selvaggina. Ormai stavo uscendo fuori dall’incubo ed ogni mio gesto era mirato a quello scopo: offrire una chance in più alla selvaggina. Ma anche a me stesso.

E’ trascorso tantissimo tempo ormai da quel Beppe. Da anni le mie escursioni in natura sono motivate solo dal desiderio di catturare immagini con le mie reflex. Ci vuole grande coraggio a chiudere con la caccia perché eserciti una forte violenza su te stesso e sugli amici, buona parte dei quali ti abbandoneranno per lasciarti solo con la tua nuova interiorità. E’ un passo che si può fare.

Ma poi con gli anni tutto appare così distante ed assolutamente estraneo alla tua persona..

Nasce un nuovo uomo. E’ questa è la miglior ricompensa che ti ripaga di tutte le vergogne che hai commesso..

 

 

“Bisogna chiudere i cicli. Non per orgoglio, per incapacità o per superbia: semplicemente perchè quella cosa esula ormai dalla tua vita. Chiudi la porta, cambia musica, pulisci la casa, rimuovi la polvere.Smetti di essere chi eri e trasformati in chi sei.”       (Paulo Coelho)

daniela giuffrida

Autrice - International Member – GNS PRESS ASSOCIATION Scrittrice e Blogger freelance. Collabora con alcune testate on-line nazionali e siciliane. Attivista No Muos. Di cuore siciliano, instancabile attivista e documentarista delle lotte sociali, degli accadimenti della propria terra e non solo.

Lascia un commento