IL BOSCO INCANTATO

 

Di Beppe Miceli

 

Se avesse potuto immaginare quello che sarebbe successo al suo rientro dalla giornata di caccia, non avrebbe mai nemmeno iniziato a spararlo quel primo colpo.

Già… quel primo colpo…

Era una fredda giornata invernale di tanti anni fa quando una bruttissima febbre costringeva a letto Beppe, appena dodicenne. Lì a Foligno, nel pieno centro dell’Umbria, si stava trascinando una condizione meteorologica particolarissima che da tanto tempo non si ripeteva e che aveva favorito il diffondersi di un’epidemia influenzale per via del rigido accanirsi delle giornate di gelo.
Nella notte la temperatura era leggermente risalita ed una splendida sorpresa stava per accogliere il risveglio.

Sua madre e suo padre, insegnanti di lettere, erano già in piedi da una buona mezz’oretta intenti nel rito del caffè, quando improvvisamente si resero conto che qualcosa di straordinario era successo nella notte. Era nevicato abbondantemente ed ancora il fenomeno procedeva con solenne insistenza. Senza un attimo di tregua sullo spesso strato di neve si stavano depositando altri larghi fiocchi. Una nevicata così intensa ed abbondante che i vecchi non avevano ricordanza di avere mai visto in città. Beppe balzò dal suo lettino pur essendo ancora tutto sudato per la febbre che lo stava dilaniando e si mise dietro i vetri ad appannare quella splendida visione. Una distesa di bianco impensabile.

Il vetro era gelato e le sue mani presto avvertirono il freddo che dall’esterno, attraversandone lo spessore, tentava di penetrare nel suo corpo. Un brivido percorse la sua schiena.
Si tuffò quindi nel suo lettino anche perchè sentì la mamma sopraggiungere alle sue grida di gioia.
I suoi genitori sarebbero dovuti andare a scuola e la loro preoccupazione era quella di lasciarlo solo in casa pensando che avrebbe potuto vestirsi per scendere di nascosto in strada a giocare con la neve.

Ma suo padre, uomo di grande carisma ed intelligenza, riuscì a strappargli una solenne promessa: quella sera stessa, al suo rientro, se lui fosse rimasto sempre a letto, gli avrebbe portato un regalo bellissimo. Un regalo unico nel suo genere.
Beppe era certo che il babbo non avrebbe mancato alla sua promessa ed era altresì convinto che se non avesse obbedito, qualcuno comunque avrebbe spifferato tutto ai suoi genitori.
Decise quindi di ritornare dietro i vetri ad appannarli e a seguire il montare della nevicata.

La giornata, là fuori, si srotolò così tra pallate di neve e valanghe trascinate a forza di spintoni per costruire enormi pupazzi di neve. Erano i suoi amici, là sotto, che con gran schiamazzo ferivano ed uccidevano la sua voglia di scendere insieme con loro.
Smaniava Beppe, e dentro di sè il tormento di non poter uscire con loro lo stava divorando. I suoi amici che lottavano avvinghiati rotolandosi là sotto sulla neve del piazzale lo vedevano dietro ai vetri appannati e facevano ancor più chiasso per convinecerlo che quanto stesse perdendosi era qualcosa di irripetibile.
Una cattiveria che lui conosceva bene. E che questa volta era indirizzata proprio a lui.

Continuò a nevicare fino al primo incedere della sera, quando il plumbeo cielo lasciò libero il campo ai lampioni della strada che illuminavano enormi falde di neve che atterravano come pipistrelli in planata. Cadevano al suolo e felpavano il cuore di rumore sommesso. Una profonda tristezza pervase quel giovane dodicenne che morso dalla febbre, aveva sofferto più per la cattiveria degli amici che per la vampa di calore che gli attanagliava le meningi.
Quel giorno, nella noia dell’attesa dentro al suo lettino, mettendosi il termometro, si ricordò che negli ultimi giorni gli erano apparsi i primi peletti intorno al suo pisello. Ed era stato a contarli per tutto il giorno, soddisfatto del suo progresso. Ora anche lui avrebbe potuto cominciare a vantarsene come i suoi amici più grandicelli.

Beppe infatti era andato a scuola a cinque anni ed aveva sempre patito l’handicapp di questo anno di differenza con i suoi compagni di scuola, nonostante la statura e la sua intelligenza lo potessero tranquillamente inserire insieme a compagni più grandi di un anno. Ma ora si sentiva affrancato da quella condizione di inferiorità e poteva tornare a competere con gli altri compagnetti a piene armi.
Era nel suo lettino a fissare la lampada sul soffitto che proiettava lateralmente una strana ombra a forma di struzzo, quando un sorriso di denti bianchissimi circoscritto da un folto paio di baffi e da labbra carnose lo colse di sorpresa.

Suo padre era tornato ed ora era seduto sul suo lettino con in mano una lunga scatola di cartone rettangolare. Sicuramente era la sorpresa promessa.
Una scatola dalla strana forma in effetti. Ma sì… certo! Un trenino della RivaRossi… non poteva essere altrimenti.
Quanto lo desiderava. Ne aveva già uno ma quello doveva essere di certo più grande, vista la scatola.
Non esitò e cominciò a scartarlo, quel pacco, con le mani tremanti. Il suo gesto si arrestò all’improvviso, quando sollevando il coperchio scoprì con sommo stupore il contenuto: un fucile da caccia. Il…. suo…. primo fucile da caccia.
Un fucile di piccolo calibro, d’accordo, ma un vero fucile in grado di colpire ed abbattere della selvaggina. Era un Beretta pieghevole. Un calibro 28 ad una canna. Poteva essere ripiegato in due e riposto comodamente in una valigia.


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Erano trascorsi quasi vent’anni da quel giorno quando Beppe rientrò a casa quella domenica sera, dopo una lunga e sfiancante battuta di caccia nella lontana maremma laziale. Ormai lui si era sposato ed era andato a vivere a Firenze dove aveva trovato lavoro e dove stava crescendo la sua famigliola con due bambine una delle quali già grandicella. Marina di sette anni e la piccola Sofia di due.
Era fiero Beppe di essere riuscito stavolta a fare un bel carniere, ricco di tordi, di cesene, di rari frosoni, di allodole, di merli, di fringuelli, di passerotti. Un grappolo di uccelli appesi per il collo ai laccioli. Questa volta tanti laccioli appesi insieme.

Tanti laccioli. Troppi.

Non appena entrò nel corridoio della sua casa c’era Marina ad attenderlo.
Aveva il suo sacchetto con i Puffi in mano. Con l’altra manina reggeva Gargamella, il più cattivo dei Puffi che lei non voleva mai mettere insieme agli altri nel sacchetto per una questione di “conflittuale convivenza”.
Rimase allibita la piccola Marina per qualche istante quando vide suo padre che le faceva ciondolare davanti al viso quel malloppo d’impiccati. Tanto che per un attimo Beppe sperò che quello spettacolare carniere fosse potuto piacerle, aumentando la stima per suo padre.
Lo sguardo della bimba per alcuni secondi rimase imperscrutabile. Poi di colpo il viso avvampo’ di rossore, si contrasse in una smorfia di dolore e si chiuse in un espressione che non lasciava più adito a dubbi. Il rifiuto del padre come figura educatrice e come quella di uomo giusto e sensibile.
Pianse Marinella, a lungo, senza dire parole. Pianse e quelle lacrime rimasero per sempre a bagnare la coscienza di un uomo che già sapeva di essere nel torto ma non fino a quel punto.
Quella era stata l’ultima uscita di caccia di Beppe, conclusasi con un tragico carniere mai festeggiato.
I suoi sei fucili, di vario calibro e foggia erano finiti chiusi al buio di un armadio, inseriti nelle loro custodie, ben oleati, ma destinati a rimanere lì per chissà quanti anni ancora.

Di colpo le domeniche libere di Beppe divennero un’ossessione da portare avanti. Non era tifoso di calcio per cui le alternative a tutto quel tempo resosi improvvisamente disponibile doveva inventarle.

Quella domenica d’ottobre, forse del 1981, Beppe pensò di uscire in campagna per portarsi appresso Marinella così come faceva suo padre con lui quando lo avvicinò le prime volte al mondo della caccia.
In ufficio aveva sentito dire che a Bivigliano, pochi chilometri fuori Firenze, i suoi colleghi avevano trovato grandi quantità di funghi porcini. Lui non era mai andato per funghi ma decise quella volta di provare. In fondo i porcini sono facilmente riconoscibili, quindi non sarebbe stato difficile riconoscerli.

La mattinata nel bosco di Bivigliano, raggiunto dopo una spirale avvitata di curve e controcurve, si snocciolò lentamente tra rovi da attraversare, rami da spostare nel sottobosco, foglie da sollevare. Un bosco che non riconosceva Beppe e Marina come frequentatori abituali, che li vide come intrusi e che non volle premiarli di alcunchè.
I porcini al loro avvicinarsi si ritraevano nel suolo, si trasformavano in lumache dalla bavosa striscia argentata, si raggrinzivano a forma di rami secchi. Ed il percorso appariva sempre vuoto ed inutile.

Poi, accadde il fatto. Un ponte levatoio s’abbassò di fronte a loro ed aprì un varco nell’impensabile. Nell’imprevisto. Nell’incontro che avrebbe dovuto segnare l’anima e la carne di quelle due creature disperse in un bosco ostile ed avaro.
Un varco nel destino, nella casualità più assurda che potesse essere immaginata.
Udirono nel fitto della vegetazione un vagito di lattante poco lontano. Un vagito nel bosco si domandarono? Un vagito che man mano si avvicinavano spostando rami, rovi e foglie si faceva sempre più forte e disperato. Senza accorgersene quella corsa che dilaniò le loro mani e il viso in mezzo alla vegetazione di rovi li condusse in una piccola radura del bosco attraversata da una fenditura dove scorreva un ruscello. Un corso d’acqua che faceva sentire il rumore del suo scorrere ma che non consentiva la vista dell’ acqua perchè avvolto in una galleria di rovi: il vagito proveniva da lì dentro.

Babbo e figliola si guardarono perplessi per un attimo senza riuscire a capire cosa pensare e sopratutto cosa fare.
Intravidero un qualcosa che si mosse leggermente nel fitto dei rovi proprio nel punto da dove proveniva il vagito ma non riuscivano a focalizzarne la sagoma. Una forma indistinta, chiara, che lentamente si muoveva senza spostarsi, ma si muoveva.
Beppe studiò la situazione e capì che l’unico modo per accedere nel tunnel era quello di risalire dall’esterno il ruscello fino a trovare un varco nella vegatazione, scendere sul greto e percorrerne la sua lunghezza.
Difatti scoprì che una decina di metri più a monte era possibile mettere in atto questo piano.

Fu un’avanzare tra le spine che furono poste sulla fronte del nostro Signore. Tormenti che gli si configgevano nelle orecchie, nel naso tra i capelli staccandosi e rimanendo conficcati. Ma il vagito era pochi metri più avanti e lo chiamava sempre più disperato.
Poi di colpo il silenzio. Più nulla. Solo il ruscello scorrere sugli stivali solleticando i suoi piedi. Un silenzio che rese inutile tutto quello sforzo: nella penombra del tunnel di rovi il vagito s’era interrato come i funghi porcini, nascondendo la sua vera natura ed il suo assurdo significato.

La piccola Marinella rimasta all’esterno gli gridò allora: babbo è lì… non lo vedi? Lì, si muove appena…
Era lì infatti… davvero e Beppe riuscì ad intravedere una macchia chiara che si era nascosta sotto un terrazzamento di rami. Allungò la mano per prendere quella sagoma chiara e… fu investito dal soffio del vento. Vide il flash chiaro d’una bocca senza fondo.

Era un minuscolo gattino bianco con la bocca spalancata attraverso cui sporgevano aguzzi dentini bianchi. Aveva smesso il suo vagito di nenonato ma ora soffiava e mordeva. Una bocca spalancata più grande della testa.
Pochissimi giorni di vita, forse due o tre settimane. Tra il pelo bagnato e sporco di fango affioravano due grandi macchie scure sul capo.

Rimasero allibiti Beppe e la piccola Marina quando si resero conto di cosa fosse accaduto: nel bel mezzo del bosco, lontani da qualsiasi abitazione e forma di vita era avvenuto un incontro impossibile. Un incontro orchestrato da lumache che trascinavano bava, da porcini nascosti sottoterra o trasformati in rami contorti. Presenze magiche che con il loro non mostrarsi li avevano condotti per mano nel luogo dell’incontro.
Un incontro programmato dal caso? Voluto dal destino? Cercato da due cuori che avevano voglia di stringersi e perdonarsi.
Quello sarebbe stato Titti, il gattino che crebbe insieme alle bimbe di Beppe per 18 anni, crescendo ed educando tutta una famiglia ad una logica del perdono e della ricostruzione.

 

daniela giuffrida

Autrice - International Member – GNS PRESS ASSOCIATION Scrittrice e Blogger freelance. Collabora con alcune testate on-line nazionali e siciliane. Attivista No Muos. Di cuore siciliano, instancabile attivista e documentarista delle lotte sociali, degli accadimenti della propria terra e non solo.

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